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Curiosità

Il Trionfo delle Fragole

 

La simpatica festa, scomparsa nella seconda metà del secolo sorso, è così descritta da Luigi Dubino.
"
Il giorno 13 di giugno, epoca in cui si avvicina al suo termine il raccolto delle fragole, era costume delle forosette romane, raccoglitrici di quel soave e squisitissimo frutto, di fare una festa che si conosceva per Roma col nome di "Trionfo delle Fragole".
La pompa che costituiva questo trionfoeminentemente arcaico, consisteva in un gran canestro a larghissima falda sul quale era posta una statuetta di stucco rappresentante S. Antonio da Padova, la cui festività cade precisamente nel giorno suindicato.
Attorno a quel picolo simulacro e sopra uno studio di fogli argentati, le fragolaie ponevano in bell'ordine una quantità di panierini ricoperti ancor essi di carta inargentata e ricolmi di quel frutto delizioso.
Questo canestro o trionfino era recato sulla testa da robusti popolani che davansi di quando in quando lo scambio onde riposarsi a vicenda.
La pompa trionfale partiva da Campo de' Fiori e procedeva per le principali vie di Roma in mezzo ad un festoso stuolo di fragolaie,
che in onore di S. Antonio e delle fragole cantavano i più graziosi ritornelli accompagnati dal suono delle tamburelle popolari [...]."

La "Patarina" non c'è più !

Quando si ode il suono del campanone capitolino, molti romani son convinti che trattasi ancora della "Patarina" (così detta dalla presenza in Viterbo di un gruppo di eretici detti "Patarini"), la famosa campana portata come trofeo di guerra nel 1200 dal Senatore Pandolfo della Suburra, dopo aver sconfitto i viterbesi che avevano osato molestare gli abitanti di Vitorchiano volontariamente postisi sotto la protezione di Roma.
La "Patarina" invece non c'è più: fu rimossa nel 1570 e,
fracta et devastata, venne destinata alla fusione. Al suo posto fu collocata un'altra campana verso la fine del '500, sostituita nel 1803, da quella attuale, che pesa 5.941 chilogrammi.

     

Il Lotto in chiesa

Ad uso quanto mai profano venne adibita la Chiesa di Santa Maria in Campo Marzio durante l'occupazione napoleonica.
Si legge infatti nel
Giornale del Campidoglio del 2 Aprile 1811, che in quel periodo l'estrazione del lotto " incominciò ad eseguirsi con grande solennità e concorso di popolo nella chiesa delle Benedettine a Campo Marzio, ridotta al nuovo uso dall'architetto Bernini il quale eresse il palco dell'estrazione nell'abside al punto dove sorgeva l'altare maggiore".

La chiesa fu nuovamente consacrata e riaperta al culto da Pio VII (1800-1823) nel mese di febbraio 1814.


Chiesa in Santa Maria in Campo Marzio - Via di Campo Marzio, 45/a

Il Carnevale Romano

Fino alla fine del XIX secolo il Carnevale Romano ha rappresentato uno dei maggiori eventi pubblici del paese.
Sebbene quest'usanza si sia estinta da oltre un secolo, occupa tutt'ora un posto di rilievo tra le antiche tradizioni folkloristiche della città. Consisteva in una colossale festa pubblica della durata di
otto giorni, che si chiudeva la notte del Martedì Grasso, con l'avvento della Quaresima.
In realtà i festeggiamenti cominciavano undici giorni prima, cioè di sabato, ma il venerdì e la domenica erano vietate le corse e le mascherate, per cui i giorni effettivi dei festeggiamenti si riducevano a otto, secondo il seguente calendario:

SAB DOM LUN MAR MER GIO VEN SAB DOM LUN MARTEDÌ GRASSO


L'abitudine di indire manifestazioni di svago prima della Quaresima ebbe inizio nel X secolo, anche se in forma di giochi e tornei, solo in seguito tramutati in feste di piazza. Divenne presto uno degli appuntamenti più attesi dell'anno, richiamando gente anche da fuori città. Durante il Rinascimento il Carnevale Romano superò in fama persino quello celeberrimo di Venezia!

L'importanza della festa per i romani veniva accresciuta dal fatto che solo durante questo breve periodo era consentita la trasgressione di alcune rigide disposizioni in materia di ordine pubblico, in gran parte basate su codici religiosi. I tutori dell'ordine erano inflessibili a farle rispettare nel resto dell'anno e in particolare durante l'imminente Quaresima, quando persino le commedie a teatro erano proibite per non turbare lo spirito pasquale.
Insomma, a Carnevale ci si poteva prendere qualche libertà, anche verso la classe dirigente (clero e nobili), che in altri periodi dell'anno sarebbero costate la galera, o peggio.

E benché anche il Carnevale fosse strettamente regolamentato, non era raro che qualcuno si lasciasse andare ad eccessi di ogni sorta. Sotto diversi papi, primo fra tutti Sisto V, a Carnevale il boia dovette fare gli straordinari.

I festeggiamenti però erano tutt'altro che garantiti: ogni anno si doveva attendere che il papa con un editto apposito concedesse la licenza di tenerli. In genere nei Giubilei (o Anni Santi) l'intero programma veniva soppresso e sostituito da celebrazioni liturgiche. Anche la morte di un papa poteva far sospendere le feste (ad esempio quella di Leone XII, nel 1829, costò ai romani il Carnevale di quell'anno).
Inoltre durante questi giorni molti papi temevano rivolte, perché la possibilità di circolare col volto coperto da maschere non consentiva il facile riconoscimento di sovversivi e ricercati. Quindi in prossimità di provvedimenti impopolari (nuove tasse, o altro) ogni scusa era buona per abolire le feste in costume.
Ad esempio nel 1837 il motivo ufficiale del divieto fu un'epidemia di colera e
Belli scrisse:
"Oggi arfine per ordine papale
Cor protesto e la scusa der collèra,
Ma ppe un'antra raggione un po' ppiù vera
Er Governo ha inibbito er carnovale"
.
(da Er carnovale der '37, 20 gennaio 1837)

Il primo luogo dei festeggiamenti del Carnevale Romano fu piazza Navona, allora platea in Agone, dove sin dal medioevo si svolgevano tauromachie e tornei di cavalieri consistenti nel colpire un bersaglio rotante (un classico saracino) oppure varianti quali il gioco dell'anello (infilzare con la lancia un anello collegato ad un grosso recipiente pieno d'acqua che si rovesciava sul cavaliere).

A questa si aggiunse il Monte Testaccio, presso il confine sud-ovest dell'allora confine urbano, area pressoché disabitata;
qui, oltre ai divertimenti già citati, si praticava una tradizione abbastanza cruenta detta la
ruzzica de li porci.
In cima alla collina artificiale venivano allestiti carretti con sopra diversi maiali vivi, che poi venivano fatti rotolare lungo la ripida fiancata; nella corsa i carri si rovesciavano e si fracassavano, mentre a valle si radunava una gran folla che si contendeva gli animali (o quanto ne restava) in una gigantesca e alquanto sanguinolenta ressa.

Verso la metà del '400 i festeggiamenti cambiarono sede per ordine di papa Paolo II, che essendo veneziano colse l'occasione per valorizzare il suo Palazzo Venezia appena costruito, ovviamente in piazza Venezia.

Come teatro delle feste carnascialesche fu scelta l'adiacente via del Corso, che all'epoca si chiamava via Lata (era la periferia nord della Roma rinascimentale) e che ancor prima, in epoca romana, era stata il primo tratto della via Flaminia.
Qui la fantasia popolare partorì un'altra competizione quanto mai bizzarra e decisamente crudele: una corsa lungo il rettifilo di circa 1.5 Km a cui prendevano parte zoppi, deformi, nani, ...ed ebrei anziani.
Il popolo gioiva alla vista degli strani competitori e non risparmiava loro salaci battute ed il lancio di ogni sorta d'oggetti.
Fu Clemente IX che nel 1667 pose fine alla barbarie, ma da allora agli ebrei toccò accollarsi gran parte delle spese del Carnevale e subire l'onta di una cerimonia farsesca con la quale lo stesso si apriva.

Il Rabbino Capo della comunità si recava in Campidoglio e inginocchiato davanti al Senatore e ai Conservatori, la pubblica amministrazione di Roma, pronunciava un discorso di contrizione, al quale il Senatore rispondeva con le parole:
"Andate! Per quest'anno vi soffriamo, rifilando al capo degli Israeliti romani un calcio nelle terga!"
Ma a parte ciò, si tenevano anche manifestazioni più innocue: sfilate di maschere (erano molto in voga quelle dei personaggi della Commedia dell'Arte, come Pulcinella o Arlecchino), festini (balli pubblici che duravano tutta la notte), lanci di confetti (pallottole di gesso colorato) e di
sbruffi (equivalenti agli attuali coriandoli).

Si arrivava così all'atto conclusivo del Carnevale, la sera del Martedì Grasso, con la suggestiva Corsa dei Moccoletti, fatta cioè reggendo candele o lumini e tentando, nel correre, di spengere le fiammelle altrui.

Di giorno erano in molti a travestirsi. Dopo il tramonto era ancora lecito farlo, ma senza indossare maschere sul volto, per motivi di pubblica sicurezza; tali maschere, di cera o cartapesta, erano così popolari da costituire per i venditori una vera nicchia di mercato, per tutta la durata del Carnevale. Persino preti, frati e monache facevano baldoria, anche se nell'ambito dei rispettivi conventi (non in strada); erano ammessi musica, balli, pranzi sontuosi e anche qualche innocente travestimento. Alle monache di clausura, però, era consentito mascherarsi solo con gli abiti dei propri confessori!

L'evento più atteso era la Corsa dei Barberi, cioè dei cavalli berberi, una razza non molto alta ma muscolosa; questa aveva sostituito nel favore popolare la corsa ormai vietata degli storpi.
Si ripeteva ben
otto volte, quanti erano i giorni di feste e si svolgeva poco prima del tramonto.
I barberi venivano lanciati senza fantino da
piazza del Popolo (fase detta mossa o smossa) e raggiungevano a tutta velocità l'estremità opposta del Corso, piazza Venezia, allora assai più piccola dell'enorme spiazzo che è oggi, dove si tendeva un telone per fermare i cavalli, mentre i barbareschi, mozzi di scuderia, dando sfoggio di coraggio e di muscoli si gettavano tra di loro tentando di bloccarli a viva forza (cosiddetta ripresa dei barberi), in mezzo al trambusto generale.

Il proprietario del cavallo vincitore riceveva in premio un palio, cioè un drappo di stoffa preziosa e ricamata, le cui spese toccavano, manco a dirlo, agli ebrei.

Ciò che rendeva molto pericolosa questa corsa era la strettezza della strada, completamente riempita di spettatori.
Per tale ragione papa
Alessandro VII nel 1665 fece demolire l'antico arco detto di Portogallo che creava un collo di bottiglia a circa metà percorso. I signori assistevano dai balconi (che in questa occasione venivano affittati), ma i più rimanevano in strada, affollati su entrambi i lati della carreggiata lungo un gradino alto e stretto che fungeva da marciapiede, oggi scomparso.

Nel 1874, durante la corsa un giovane improvvidamente attraversò la strada mentre sopraggiungeva un cavallo e morì proprio sotto gli occhi dei reali. Vittorio Emanuele II abolì la manifestazione, che da allora non fu mai ripetuta.
Questo segnò la fine della corsa e anche del Carnevale Romano che vi era così strettamente legato.
Persino
Trilussa scrisse in uno dei suoi sonetti:
"Leva er tarappattà,1 leva la gente,
leva le corze... la bardoria è morta,
er carnovale s'ariduce a gnente.
Dicheno bene assai li mi' padroni:
de tutt'er carnovale de 'na vorta
che ciarimane mò? 'N par de... vejoni"
.
(da Er carnovale de mò, 1890)

Per tutto il XX secolo delle suddette manifestazioni rimase solo il lontano ricordo, nel nome stesso di via del Corso.
Negli ultimissimi anni, però, sono stati fatti dei tentativi di riportare in vita alcune delle tradizioni legate al Carnevale Romano: sfilate in costume, rappresentazioni della Commedia dell'Arte (dai cui personaggi classici molte maschere hanno avuto origine), ed altri eventi a tema si tengono in alcune tra le maggiori piazze della città, soprattutto nel fine settimana che precede il Martedì Grasso.

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